Moisa

theophilus imani
1 min readDec 18, 2019

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Maïmouna Guerresi, “Moisa”

Lo scorso autunno, avevo trascorso una giornata nello studio di Maïmouna Guerresi. Quel giorno non ci eravamo dedicati alla fotografia, ma avevamo rifinito i dettagli di una scultura. L’opera, realizzata in resina, era una figura femminile velata. Rievocava le Madonne addolorate della tradizione cattolica​; ma i gentili lineamenti del suo viso erano africani. Dal capo, contrappuntato dalle corna del Mosè, ricadeva su tutto il corpo il lungo velo. E terminava, toccando il suolo, in lievi panneggi ondulati, che sorreggevano l’intera struttura conica della scultura. Moisa, sospesa da terra, sembrava levitare.

Maïmouna mi chiese di levigare la scultura. E con pezzi di carta vetrata cominciai a polire la sua superficie. I movimenti della mia mano richiedevano cura e attenzione: non troppo bruschi, da rimuovere il bianco candore della scultura; non troppo deboli, da lasciare le piccole asperità della superficie. Mentre levigavo Moisa, la mia mano sembrava accarezzare il suo ventre, il suo seno, il suo viso. In quel momento, le mie dita acquisirono una nuova sensibilità. Impararono di nuovo ad accarezzare un corpo femminile.

Nello scambio di quel tocco (toccare vuol dire essere toccati), ripensai alle parole che uno scrittore dedicò alla sua amata: “I practice what kind of shapes I’ll make on your body.”

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