C’è Bisogno di un Nuovo Sguardo

Sulla necessità di un percorso comune

theophilus imani
6 min readJul 15, 2020
© Yinka Shonibare MBE, The Sleep Of Reason Produces Monsters (Europe), 2008.

Nel silenzio di una stanza dorme un uomo. Non riposa in un letto. È addormentato su una sedia affiancata a uno scrittoio. Sul tavolo, una penna e dei fogli, su cui l’uomo, poco prima di chiudere gli occhi, ha adagiato le sue braccia. Conserte, le braccia accolgono il suo capo, e le sue mani oscurano il suo volto. Nella stanza, il silenzio contiene un’anticipazione. Un presagio avvertito da un gatto nero accovacciato alle spalle dell’uomo. Lo sguardo del gatto è fisso, sbarrato. Discorde da quello di una lince seduta vicina allo scrittoio. I due felini sono immobili. La loro calma apparente contrapposta all’incipiente tumulto della stanza: come un’ombra, dietro all’uomo, incombe un grottesco stormo di gufi e pipistrelli.

Questa scena è riprodotta in una serie fotografica di Yinka Shonibare. La serie, intitolata The Sleep of Reason Produces Monsters (2008), ricrea l’omonima opera di Francisco Goya. Nella fotografia, il ritratto dell’uomo si discosta dalla polisemia dell’acquatinta del 1799. A differenza del soggetto di Goya, il dormiente di Shonibare indossa indumenti cuciti con stoffa wax (un elemento distintivo nell’oeuvre dell’artista anglo-nigeriano). E cambia, nei ritratti simil-identici della serie, l’identità dell’uomo. Nel ciclo di fotografie (una per ogni continente), non cambia solo la razza del soggetto; cambia anche l’incisione originale riportata sul fianco dello scrittoio. In un ritratto, questa legge, “Les songes de la raison produisent-ils des monstres en Europe?” L’interrogativa è retorica. Commentandola, Shonibare dice, “Credo che le aggressioni irrazionali (…) contro una razza che non si comprende generino un sonno della ‘ragione’ da cui fuoriescono mostri.”

Negli ultimi mesi, questi mostri sono ripiombati con violenza nelle vite nere. Attraverso uno schermo, hanno fatto irruzione anche nel nostro quotidiano. Le morti di Ahmaud Arbery, George Floyd, Tony McDade, e Breonna Taylor ci hanno adirati, rattristati, addolorati. Per giorni, i nostri animi sono stati affranti; e una folla di pensieri ha fatto ressa alle porte della nostra mente. Accalcate, le parole hanno cercato voce. Ma in alcuni momenti, la nostra frustrazione è stata resa afona. Nelle scorse settimane, rimanere nel qui e ora è stato più difficile del solito. E come il pegman di Street View, siamo stati trascinati nelle strade di Minneapolis, Washington e Los Angeles. I pensieri ci hanno poi riportati in Italia. Ma i mostri che sopraggiungono anche nei nostri quartieri, rievocati da ricordi personali e collettivi, ci hanno spinto, e ci spingono, a ricercare un altrove immaginario.

© Karim El Maktafi, Giugno 2020.

Quest’altrove non si trova al di là nello spazio, perché la nostra appartenenza è inscindibile dal luogo del nostro vissuto. L’altrove sta al di là nel tempo. Risiede in un futuro immaginato e rivendicato. Quel futuro che secondo Tina Campt “non si è ancora realizzato ma deve essere realizzato.” La prefigurazione di quell’altrove, sospeso nella possibilità del domani, ha spinto migliaia di giovani afroitaliani a scendere in piazza. Le nostre grida, guidate da giovani donne nere italiane, hanno rivendicato una visibilità da sempre negata. Questa visibilità, come ricorda Adrienne Edwards, non è una questione di facoltà visive. Questa visibilità è una questione di riconoscimento. Un riconoscimento del diritto alla cittadinanza, del diritto al lavoro, del diritto all’ospitalità. In altre parole, un riconoscimento del valore delle vite nere. Un valore che, in Italia come negli Stati Uniti, non viene abbracciato dalla sfera pubblica. Certamente, le nostre vite non vengono troncate su sfondi bucolici che odorano di magnolia. Ma la mostruosità del razzismo, come scrisse Jean-Paul Sartre, è una, nonostante questa assuma “aspetti particolari secondo la storia e le condizioni geografiche.”

In Italia, il razzismo è ventriloquizzato. Le persone nere lo sentono, lo vivono sulla propria pelle. Ma nessuno sembra commettere atti razzisti. Il non (voler) riconoscere le specificità del razzismo italiano genera altrettanti mostri quanto il sonno che li produce. E questa falsa innocenza, in cui molti italiani bianchi si rifugiano, è terrificante. (Tornano in mente le parole di James Baldwin: “Chiunque perseveri a rimanere in uno stato di innocenza molto tempo dopo che questa innocenza è morta si trasforma in un mostro.”) Spesso, l’innocenza prende il tono amaro di giustificazioni di spirito. Spiegazioni vane che cercano di razionalizzare abitudini razziste. Quelle frasi e quegli atteggiamenti che le persone bianche, nel rapporto con le persone nere, non mettono mai in dubbio. E non sorprende che questi punti d’ombra oscurino ancor di più lo sguardo di certi italiani che si fanno portabandiera delle lotte antirazziste. La loro è una posizione meramente performativa. Sfilano mentre sanguinano per ferite che (non) sanno di avere.

Nei frammenti di Eraclito che ci restano, il sonno della ragione rinchiude gli individui in un mondo “proprio e particolare,” diverso dal mondo “unico e comune” abitato dai desti. Come i dormienti, anche gli eterni innocenti si crogiolano in un mondo proprio. Un mondo di fantasmagorie dove la percezione di sé, relazionata al vivere con le persone nere, è fallace. Un mondo di autocompiacimento, dove l’illusione (“non posso commettere atti razzisti — ho amici neri!”) è figlia di un mancato equilibrio tra lo sguardo su di sé e quello sul mondo comune. Uno sfasamento che prende il profilo del paternalismo, del pressapochismo, e della buona intenzione che termina “in piscem.”

C’è bisogno di un nuovo sguardo, un nuovo modo di vedere. Che si dislochi dalla comodità dell’autoreferenza e accolga la difficoltà dell’ascolto. L’ascolto dell’altro. Ma anche di sé stessi. Un dialogo interiore capace di scandagliare la propria posizione in rapporto al proprio presente, al proprio passato, e al proprio vivere col cittadino nero (cittadino è anche colui che è privato del diritto alla cittadinanza). Un dialogo che riconosca che la relazione nero-bianco si apre, sì, sul palcoscenico del presente, ma si muove sempre sul fondale della storia.

© Ken Gonzales-Day, Untitled, 2012.

“Nel contesto postcoloniale, le contraddizioni sono inevitabili,” dice lo scrittore Amitava Kumar. “E riconoscere l’inevitabilità di queste contraddizioni è abbandonare uno sguardo innocente e pericoloso sulla storia.” Il contesto postcoloniale non si distende solo ai piedi dell’Himalaya o di là dal Mediterraneo. Il contesto postcoloniale è anche qui: in Europa, in Italia. E riconoscerne le contraddizioni (una tra queste, il dichiararsi non-razzista, ma essere inconsciamente complice di pensieri e strutture che alimentano le mostruosità del razzismo) è un passo necessario per avviare un percorso antirazzista. Un percorso personale, impegnativo, quotidiano. Insomma, una prassi. Dal carcere, scriveva Antonio Gramsci, “lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione.”

Ma l’azione, in questo caso, non può precedere le voci di coloro che vivono gli effetti alienanti delle contraddizioni. L’azione non può procedere senza le nostri voci. Voci che prima di essere azioni sono pensieri. Pensieri pensanti, quindi dei “sum.” “Sum” visibili, autocoscienti della propria Nerezza. Aperti al dialogo con coloro che vogliono porsi in ascolto. Con coloro che riconoscono nel “sum” un Tu: l’altro a sé non alieno, l’altro a sé prossimo. È il silenzio di questa prossimità che dischiude il tempo del dialogo. È questo silenzio che diventa ascolto. Un ascolto necessario per nutrire la relazione, e intraprendere quindi un percorso antirazzista. Questa prassi non solo si fa sguardo sulla lingua del Tu. La prassi è anche movimento comune verso un linguaggio, la costruzione di un linguaggio. Non conforme alle immagini raffazzonate dell’alterità, ma capace di descrivere le complessità della relazione e del mondo comune.

Per realizzare tutto questo serve uno sforzo. Una capacità di configurare un altrove, la cui parvenza è nascosta nel quotidiano. L’altrove è latente. Attende solo di essere manifesto. E la sua realizzazione, come scrive il filosofo Kwame Anthony Appiah, “richiede una sorta di impegno iniziale, lo sforzo di immaginazione che facciamo quando leggiamo un romanzo, o vediamo un film, o osserviamo un’opera d’arte che ci parla da un posto diverso da dove siamo noi.”

(Questo testo nasce nel tempo del dopo-dialogo. Riflette uno scambio di pensieri avvenuto tra me e Adama Sanneh.)

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Written by theophilus imani

Mi nascondo dietro cose semplici.

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